domenica 9 ottobre 2011

Da Popayan a Otavalo via Pasto e Tulcàn (24/30 agosto). Hasta luego Colombia, bienvenidos a Ecuador!

Prossima e ultima tappa colombiana: Pasto, cittadina vicina alla frontiera dove ci fermeremo giusto un paio di giorni prima di entrare in Ecuador.Partiamo presto da casa di Ramiro, per affrontare i 3-4 km di cammino per tornare in paese piano piano con gli zainoni sulle spalle. C'è un pò di malinconia nei nostri animi, tanto siamo stati bene e a nostro agio a San Augustin e soprattutto in compagnia del nostro ospite, però dopo una settimana di campagna e monti è proprio ora di cambiare aria.

Da San Augustin percorriamo nuovamente a bordo di un bus scassato la terribile strada che arriva a Popayan, fatta di terra, buche (soprattutto buche) e lavori in corso.
Ancora una volta notiamo divertiti gli operai sul percorso: per ognuno che lavora ce ne sono almeno tre che guardano, qualcuno legge un libro, uno mangia, uno si fa una pennichella. Ce ne sono alcuni che camminano lentamente trasportando un mattone per volta... Pare che questa strada, in corso di pavimentazione, sia destinata a rimanere disastrata ancora per un bel pezzo...
Questo autista, nonostante il bus sia grande il doppio di quello dell'andata, guida come un pazzo, prendendo le curve a ciavatta e non curandosi delle voragini che ci fanno saltare sui sedili (che per metà sono divelti, evidentemente questo mezzo percorre sempre la stessa strada, pensa gli ammortizzatori come bestemmiano).
Insomma, contro le 6 ore dell'andata, nonostante il dolore alle chiappe e la polvere, arriviamo a Popayan all'ora di pranzo in circa 4 ore.

Non abbiamo molto da fare, se non andare a recuperare l'obiettivo dal signor Ballesteros e farci una passeggiata giusto per il pranzo e la cena. Popayan è infatti una bella e gradevole cittadina ma non c'è molto da fare, così ce ne stiamo tranquilli a riflettere sul da farsi e a sistemare un pò di carte.
Il giorno seguente di buon'ora scendiamo le scale ed entriamo nel terminàl a due passi dall'economico alberghetto dove abbiamo pernottato.
Prendiamo il primo bus per Pasto, che percorre un tratto di Panamericana ad alto livello di spettacolarità, attraversiamo gole scavate da fiumi impetuosi, vallate verdi, creste rocciose ad alta quota, sempre con le ruote a un metro dal precipizio, che se ti affacci dal finestrino puoi vedere direttamente il fondovalle.

Raggiungiamo Pasto rapidamente e anche qua andiamo a cercarci una sistemazione non troppo lontano dal terminàl, visto che entro un paio di giorni dovremo ripartire, sistemazione che troviamo nel Torre Ideàl, un albergo vero che costa una stupidaggine.
Qui abbiamo da sbrigare una pratica con l'ufficio delle imposte, il DIAN, cioè cercare di farci rimborsare l'IVA del 16% sulla macchina fotografica che ha comprato Giuliacci e sull'obiettivo che ho preso io, in quanto non residenti nel paese. L'ufficio pare abbastanza organizzato, soprattutto se penso ai nostri, c'è uno sportello dove ti indirizzano alla giusta scrivania e un sacco di impiegati con un pc che lavorano tutti in uno stanzone.
Mi metto in fila e in un quarto d'ora tocca a me. La signora dell'ufficio informazioni purtroppo non sa come comportarsi perchè non capitano molte di queste richieste e mi dice di tornare il giorno dopo o chiamare. Naturalmente dopo una telefonata e un nuovo colloquio il giorno successivo non riesco a cavare un ragno dal buco, pare che i beni acquistati non rientrino nella normativa, così mi consigliano di riprovare direttamente a Rumichaca all'ufficio di frontiera. E vabbè.

Pasto ha un bel centro città, con un paio di piazze spettacolari come quella de El Carnaval e la piazza centrale, circondate da edifici storici e chiese e c'è una certa armonia tra il vecchio e il nuovo. Per il resto le strade polverose sono piene di esercizi commerciali e bancarelle, si respira l'aria del posto di frontiera.

Accesso a plaza de El Carnaval


Plaza de El Carnaval


Nelle vicinanze c'è la laguna de La Cocha, dalle acque scure, circondata da vette andine, piccoli villaggi di pescatori e allevamenti di trote. Andiamo alla laguna con un colectivo che si arrampica sulla cima di un alto cerro e poi scende dall'altra parte, fino al villaggio di palafitte che porta anch'esso il nome di La Cocha.
Giriamo un pò sulla laguna con una piccola imbaracazione, che ci porta anche sull'isola al centro dello specchio d'acqua, coperta da una fitta vegetazione e dalla cui sommità si gode di uno stupendo panorama tutto intorno. Il clima è abbastanza inclemente, comincia a piovere appena risaliamo sulla lancita ma non ce ne preoccupiamo più di tanto, a quanto pare la gente del posto è abituata alla nebbia e alla pioggerellina e il nostro caronte non fa troppo caso agli spruzzi.
 














La lancia si muove parecchio per le onde che increspano la superficie, che significa che il lago è decisamente grande; passiamo dentro i canneti e qualche canale, prima di tornare al villaggio.
L'abitato è molto interessante, con le sue case costruite sulle palafitte e i canali attraversati da piccoli e traballanti ponti, i bambini che spingono carretti e i traghettatori in cerata e stivali di gomma, la moltitudine di ristoranti specializzati nel cucinare le trote del lago e le stradine fangose.















Ci fermiamo a mangiare qualcosa a casa del nostro barcaiolo, naturalmente trota! Fritta, squisita e con il classico contorno di riso, patate, patacones e insalata. Non vi diciamo quanto paghiamo perchè è quasi ridicolo anche stavolta.



Dopo pranzo gironzoliamo un pò nel piccolo paese, osservando la vita che scorre lenta e semplice, le case povere, i giovani che giocano a Parques (se così si scrive), sorseggiamo un hervido di maracuya con aguardiente per combattere il penetrante freddo e ci infiliamo in un colectivo che partirà soltanto dopo un'ora abbondante di attesa, quando sarà al completo.
Rimango sempre affascinato da questi posti, il tempo scorre con un ritmo molto molto differente da quello a cui siamo abituati, ben più lento anche rispetto alla lentezza sudamericana. Probabilmente, a parte gli impermeabili di gomma e i motori sulle lancie, la vita non è molto diversa da quella di qualche secolo fa e i cambiamenti storici e sociali toccano queste genti fino a un certo punto. E' una vita difficile e dura, ma al contempo così semplice che le mie domande si riducono sempre a una sola, i ragazzini sorridono anche quaggiù, giocando con una palla di stracci (cosa che peraltro facevamo sempre anche io e Giuliano dentro casa, con i pedalini sporchi e un pò di carta) e quindi: di cosa abbiamo bisogno per essere felici? Queste persone sono felici?





Torniamo a Pasto stanchi e infreddoliti, cena veloce, una delle più a buon mercato di tutto il viaggio (2500 pesos cioè un euro a cranio per sopa, arroz, carne, frijoles, platanos y jugo) e a letto presto, domani ci aspetta una frontiera da valicare!

Ripartiamo verso le 10 dopo una buona colazione, buseta fino a Ipiales, ultima cittadina degna di questo nome della Colombia, e poi con un carrito fino a Rumichaca, che è il posto di confine con l'Ecuador, dove dobbiamo sbrigare le pratiche burocratiche doganali.
Ripassiamo all'ufficio DIAN ma anche qui è un buco nell'acqua, pare proprio che l'elettronica non rientri tra gli acquisti esenti da IVA; l'impiegato mi legge tutto l'elenco dei beni rimborsabili, tra i quali rientrano gli elettrodomestici con mio grande stupore, così mi viene in mente la "classica" immagine del turista tedesco che torna a casa con una lavatrice come souvenir! Mah!

Comunque non ci perdiamo d'animo anche se si tratta pur sempre di una buona cara vecchia mezzapiotta, e salutiamo la Colombia con una lacrimuccia, convinti che prima o poi torneremo da queste parti, facendoci timbrare il passaporto in uscita.

Arrivederci!

Dopo aver comprato un pò di dollari con gli ultimi pesos rimasti (l'Ecuador ha adottato il dollaro americano come moneta ufficiale qualche anno fa dopo una profonda crisi economica) e aver fatto conoscenza con le calcolatrici truccate dei cambiavalute (per circa 180000 pesos la sua calcolatrice segna 63 dollari contro i 91 che effettivamente ci deve e quando gli faccio vedere la mia di calcolatrice ci rimane malissimo...) attraversiamo a piedi il ponte che separa le due nazioni e in un paio di minuti siamo ufficialmente in Ecuador.



Manco il tempo di scattare un paio di foto di rito che veniamo presi di mira da un pezzo di merda in divisa che ci conduce in una stranzetta della polizia per perquisirci accuratamente zaini e vestiti. Lo schifoso uomo in nero continua a ripeterci che se abbiamo della marijuana è meglio che gliela consegnamo subito perchè se la trova da solo sono cazzi amari, con un tono intimidatorio che mi ricorda certi colleghi nostrani...
Naturalmente non abbiamo nessun tipo di droga e alle ripetute richieste dello schifoso rispondiamo sempre allo stesso modo: controlla pure tutto che tanto non trovi niente. Comincia a controllare Giuliano e si imbatte nelle prime stranezze, tipo bottiglia d'acqua di laguna di Canaima e sabbia di spiaggia caraibica, così chiedendoci che cosa mai ci portiamo in giro comincia a raccontarci qualche episodio di frontiera e l'atmosfera pare sciogliersi un pò, prendendo una piega abbastanza amichevole, così gli racconto che mi sono portato appresso dalla Colombia giusto un pò di cal, che è un composto (per la maggior parte pietra!) che si usa nella masticazione della coca per estrarre il principio dalle foglie. Giusto per stare tranquillo, non si sa mai questi matti lo considerassero illegale... Naturalmente le foglie di coca che ci erano rimaste le avevamo lasciate a Pasto, non essendo sicuri dell'opportunità di farle passare per un posto di frontiera anche se quasi certi della legalità del possesso e dell'uso.
Insomma finisce di controllare Giuliano e passa al mio zaino, sempre facendo qualche battuta che nel frattempo è diventata quasi simpatica. Finchè la situazione prende una piega imprevista, evidentemente tutte le chiacchiere sono solo una tattica di uno degli uomini più di merda e viscidi che ho incontrato in vita mia. Mi chiede di fargli vedere la cal per assicurarsi della liceità o meno della sostanza e io tranquillo gliela mostro.
Appena la vede lascia stare la perquisizione, non prima di aver scosso la testa e fattomi spogliare al bagno, sto pezzodemmerda, e comincia col dirmi che proprio la settimana scorsa un altro tizio è stato arrestato per avere in tasca un pò di cal, pensa che coincidenza! Poi non contento vede la busta con le conchiglie e dice che anche quella non va bene, anche se a lui non interessa perchè è dell'antidroga e questo è interesse della protezione ecologica (o qualcosa di simile). Allorchè la situazione si fa chiara tutto d'un tratto: vuoi qualche soldo per arrotondare lo stipendio schifoso pezzo di fango!
Quello che mi fa schifo è tutta sta pantomima, dovevate vedere e sentire le cazzate che mi diceva "eehh, questa è una cosa grave", "e adesso come facciamo, ti mandano in galera per cinque anni", ecc. ecc.
Insomma alla fine della storia ha voluto 50 euro per lasciarmi in pace, benvenuti in Ecuador! Naturalmente sono sicuro che la pietra non è proibita, e me lo confermeranno in seguito, ma ormai la cazzata è fatta e mi tocca pagare sta mazzetta con il sangue che ribolle e mi tocca pure fare il finto tonto e passare per coglione. Che rabbia cazzo. Non riusciamo nemmeno a estorcergli il nome per tentare una qualche denuncia ma più che altro decidiamo di starcene buoni a causa di qualche storia che ci hanno raccontato, buste messe di nascosto nei bagagli o cose simili.
Mi sono ripromesso però, per l'incazzatura tanta, che porca troia la prossima volta mi faccio arrestare ma non pago più mazzette a schifosi pezzi di merda come questo.
Ad ogni modo: Colombia 1 - Ecuador 0 (finora l'unico paese al mondo in cui le guardie sono al servizio del cittadino e si può addirittura fare una battuta è la Colombia).
Il bastardo ci lascia uscire, attraversiamo la strada e ci mettiamo in fila per ottenere il timbro d'entrata nella repubblica ecuatoriana.

Arrivo allo sportello e senza problemi 90 giorni di visto.
Giuliano è nell'altra fila, in due minuti dovrebbe finire pure lui, basta rispondere alle classiche domande: da dove vieni (anche se sul passaporto c'è scritto venti volte), che lavoro fai (mai dire disoccupato!), che vieni a fare qui (il terrorista no?), così esco fuori ad aspettarlo.
Uscirà dall'ufficio soltanto dopo due ore.
I timbri qua non li mettono con l'inchiostro e il tampone ma fanno i gaggi e usano una stampa che occupa mezza pagina del libretto rosso. E si sono bloccati i terminali.
Colombia 2 - Ecuador 0 (non solo i colombiani sono rapidi ed efficienti, ma sono anche gli unici finora che hanno sfruttato il passaporto elettronico e controllato le impronte digitali sia in entrata che in uscita).

Finalmente abbiamo finito di lottare per oltrepassare una linea immaginaria messa lì apposta per rompere i coglioni (scusate il torpiloquio, questa è l'ultima) e possiamo prendere un taxi diretto a Tulcàn, la prima città oltre confine.
Anche a Tulcàn, come a Pasto, si respira la classica aria fronteriza, cittadina un pò squallida, mercatini dove si trova un pò di tutto, birre d'importazione che costano meno di quelle locali, ecc...
Scopriamo che l'Ecuador è veramente un pò più economico della Colombia, andando a dormire in un bell'albergo a 12 dollari per notte per una doppia (8 eurini e mezzo) e mangiando trippa alla brace con patate per 1 dollaro e mezzo...



Anche l'acqua costa molto meno qua, per fortuna...
Appena arrivati diamo giusto un'occhiata al centro, privo di particolari attrattive, formato da una decina di quadre su due stradoni paralleli, pieni di bancarelle e venditori ambulanti.

Monumento a Bolivar


Decidiamo di fermarci anche il giorno seguente, sia perchè è domenica e quindi si ferma un pò tutto, sia perchè il giovine Iengo non si sente bene.
Me ne vado a fare un giro mattutino al grande mercato domenicale, alla ricerca di un paio di scarpe da trekking che non troverò (max taglia 41, qua c'hanno i piedi piccoli...) e osservando facce e costumi ecuatoriani.

L'unica vera attrattiva di Tulcàn è il cimitero, dove vado dopo pranzo, un grande spazio verde che da decenni ospita sculture tagliate nelle piante e nei cipressi da fare invidia a Edward Shissorhands...
C'è parecchia gente, pochi a portare fiori agli "ospiti" e parecchi a scattare foto a bocca aperta per la meraviglia, addirittura c'è qualcuno che ha portato i ragazzini a giocare a calcio...
Guardate che roba assurda:







La prossima tappa è ancora una cittadina andina: Otavalo, piccolo centro in mezzo ai monti in cui vivono gli indigeni Otavalenos, artigiani tessitori perlopiù e abili venditori. La città non è particolarmente bella, le strade si assomigliano tutte e l'architettura non presenta attrattive. Quello che affascina è la presenza degli otavalenos vestiti in maniera tradizionale, le donne con le camiciette ricamate, coprispalle colorati, girocollo di perline e cappello a falda, gli uomini con alpargatas, calzoni chiari al polpaccio, camicia e soprattutto la lunga treccia di capelli sulla schiena. Qua tutti gli uomini portano i capelli lunghi e intrecciati, dai ragazzini ai vecchi, tagliare la treccia significa abbandonare le proprie origini.
Mentre Giuliano recupera dall'attacco febbrile di ieri vado a farmi un giro per il grande mercato dell'artigianato, la scusa è rimpiazzare l'unico paio di calzoni che avevo e che si è strappato altezza chiappe, la verità è che non vedo l'ora di mettere finalmente le mani su qualche coloratissima chompa o pantaloni. Il mercato è una rivelazione, nonostante sia pomeriggio inoltrato ci sono ancora parecchi banchi aperti che espongono maglioni, ponchos, sciarpe, cappelli di lana, tappeti, tessuti di tutti i tipi, in un orgasmo di colori che mi fa venire voglia di portarmi via tutto. Cammino tra le bancarelle osservando tutto quello che c'è sopra, ammiro le stupende trecce degli uomini e gli eleganti vestiti delle signore e delle ragazze. Ogni tanto un venditore cerca di attirare l'attenzione pronunciando l'ormai familiare "A la orden!". Qualcuno più audace chiede quanto offro per uno o un altro articolo. Finalmente trovo quello che cerco: un fantastico paio di pantaloni colorati a righe orizzontali e già che ci sono mi prendo anche una chompa azzurra. Così coi sandali che ho preso a Cabo de la Vela sto a posto.








Volcan Imbabura

Imbabura senza nubi


Me ne torno tutto contento all'hospedaje per mostrare tutto a Giuliano e naturalmente esco per la cena indossando i nuovi acquisti. Dopo il pranzo al mercato cittadino a base di sanguinacci di toro (saporito) anche la cena è una rivelazione: un bel piattone di fritada (maiale fritto), choclo (il mais gigante andino) tostato e bollito, mote (una specie di polenta) con contorno di insalata e avocado. Inutile dire che lo trovo delizioso.



Una bella dormita ci rende Giuliano in forma e così andiamo a farci un giro per i dintorni. Prendiamo una buseta che va verso i villaggi e scendiamo a Iluman, un tranquillo pueblito dove si fabbricano cappelli (abbiamo anche modo di vedere un artigiano all'opera nella sua bottega che ci spiega il suo lavoro) e si incontrano sciamani e guaritori a ogni angolo, c'è anche una specie di sindacato degli sciamani del villaggio!




Da Iluman scendiamo a piedi alla vicina Peguche, anch'essa centro artigianale, qui si producono chitarre, ddd e tessuti. Naturalmente nonostante le strade polverose e le case molto povere la tecnologia è arrivata anche quassù e i telai tradizionali sono stati sostituiti da moderni telai elettrici. E' impressionante passeggiare per strada e ascoltare il rumore incessante della tessitura dei macchinari.

Colibrì (stranamente fermo) sul cammino


Osserviamo gli uomini stendere la lana appena tinta ad asciugare al sole tra le case di mattoni, i cani e le pecore attraversando il villaggio polveroso fino al parco che ospita una bella cascata, dove ci fermiamo un pò a rinfrescarci tra gli spruzzi e passeggiare tra gli alberi del parco  che protegge una parte di bosco e la cascata stessa.






La cascata di Peguche è un bel salto di una cinquantina di metri, ci sono un sacco di sentieri per osservarla da tutte le angolazioni e il posto invita al rilassamento e alla meditazione nonostante gli spruzzi che in pochi minuti ti lasciano inzuppato fracico.

Dal parco torniamo al villaggio e da qui di nuovo a Otavalo, stavolta in bus, per approfittare del pomeriggio e gironzolare un pò nella cittadina e tornare a dare un'altra occhiata al mercato (e comprare un paio di bellissimi cappelli Montecristi!)

Inutile dire che dobbiamo scappare a gambe levate altrimenti ci compriamo tutto! Prossima tappa a Quito!